«Sono un po’ preoccupato» mi dice l’edicolante a pochi passi da casa, in via San Vincenzo. Siamo ad inizio luglio 2001 e la crisi della carta stampata in realtà è ancora lontanissima. Ad inquietarlo è il G8 in procinto di iniziare a Genova. «Mi hanno detto i vigili che proprio qui davanti la prossima settimana costruiranno una barriera anti-sfondamento.»
Rifletto. Mi rendo conto che il palazzo in cui abitiamo è in “zona rossa”. All’atto pratico, nessun reale privilegio e tanti disagi per entrare ed uscire. Nel giro di pochi giorni verrà chiesto dal Comune di ritirare un pass. Sarà il documento che consentirà gli spostamenti durante l’evento. Lo useremo pochissimo, preferendo l’opzione di trasferirci con gatto e scooter a Marassi per qualche giorno. Anche perché, nel frattempo, negozi, uffici e aziende mandano tutti in ferie, per evitare disagi.
Dalla settimana successiva il centro, la “zona rossa”, diventa una fortezza inespugnabile. Una serie di strutture spuntano come funghi dopo un temporale autunnale. Sigilleranno le strade, gli accessi e dunque i luoghi in cui i politici si raduneranno, tra Palazzo Ducale e la zona del Porto Antico. Il nostro G8 a Genova inizia così, su premesse nefaste. Un disastro peraltro annunciato. Da mesi si spinge una narrazione già inculcata nelle teste del pubblico a casa davanti alla tv, figuriamoci in quelle di chi vive in città. Che, per paradosso, si anima nel dibattito sulle scelte estetiche. Via le mutande dai balconi, dentro le grate e le barriere alte cinque metri a incutere timore.
I bambini sanno che Babbo Natale esiste perché poi trovano puntualmente i regali sotto l’albero. Lo stesso sembra essere avvenuto al G8. Non serve Nostradamus per sapere che ci saranno disordini. L’evento così diventa una calamita per chi ha voglia di menare le mani, con lo stato di diritto che nel frattempo finisce in fondo al corridoio, girato l’angolo.
Nel drammatico evolversi della situazione, avvolto da un circo mediatico sgradevole, oltre a un cadavere e centinaia di feriti, tra le vittime ci sono le istanze – tuttora attuali: nel 2001 si era avanti sui tempi – portate in città da migliaia di uomini e donne animate da spirito costruttivo, a prescindere dall’orientamento. Idee che possono essere discusse ma da rispettare: globalizzazione, ecologia, migrazione, distribuzione della ricchezza. Come le persone, a Genova finiranno annientate da situazioni indicibili su cui la storia ha già detto tutto, responsabilità incluse.
Venti anni fa oggi calava il sipario sul capoluogo della Liguria è stato il palcoscenico su cui ha preso corpo una vicenda che, riguardandola da lontano, potrebbe diventare un un caso studio. Le immagini del dettaglio degli scontri in cui viene ucciso Carlo Giuliani sono emblematiche. Ci sono più persone che riprendono la scena rispetto a quelle coinvolte. Per il resto, la magistratura ha messo la parola fine alla valutazione di eventi che, nel bene o nel male, sembra si sia cercato di dimenticare, almeno a Genova, già partire dalla domenica sera. Nell’appendice finale del G8, nel quartiere della Foce, centro delle devastazioni e dei pestaggi, i segni dei disordini erano già praticamente spariti al tramonto del sole.
A parte la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto, Piazza Rossetti, via Tolemaide, Corso Torino, Piazza Alimonda da subito hanno ripreso il loro abituale aspetto. Come se, una volta terminato lo show, in cartellone tornasse lo spettacolo abituale. Un po’ come la città che, inconsciamente o meno, ha rimosso quei giorni in cui i residenti si trovarono spettatori di un evento così traumatico. Davanti alla chiesa di Nostra Signora del Rimedio, dal nome emblematico, resta giusto un cippo dedicato a Carlo Giuliani nell’aiuola antistante. Tranne una manifestazione dedicata alla sua scomparsa organizzata dalla onlus che si richiama al suo nome, e una mostra fotografica a Palazzo Ducale, il G8 a Genova non è ricordato volentieri. Meglio dimenticarlo, come avviene dopo un’incubo notturno.
Riflettendo, a partire da quel luglio del 2001, negli ultimi vent’anni nel territorio urbano lungo 40 chilometri sulla costa si sono alternate tre alluvioni, il crollo della torre di controllo del porto urtata da un traghetto in manovra, lo smembramento della Costa Concordia e il disastro del viadotto autostradale sul Polcevera, noto con il nome tecnico di “Ponte Morandi”.
In mancanza dell’edicolante a cui chiedere una opinione (nel frattempo ha chiuso, segno dei tempi) la risposta più naturale al quesito del perché quella vicenda, che fu di portata mondiale, a Genova sembra sia svanita nell’oblio, in fondo arriva da un’espressione dialettale che è un caposaldo culturale locale. Una frase che ha origini lontanissime, che rende ancor oggi orgogliosi i genovesi. La usarono nel 1158 i loro delegati, rappresentati da Oberto Spinola, come replica alle richieste del Barbarossa che pretendeva omaggi e tributi per convalidare quanto già concesso dai suoi predecessori. Con tutto il rispetto, rispose: «emmo za dæto.» Abbiamo già dato.