Il politinglese e un codice Ateco per i venditori di aria fritta

E venne il giorno del cashback. Cosa sia non è il tema del post, per quanto il significato reale non appaia subito chiaro. Semmai è lo spunto per parlare dell’ultima di decine di parole inglesi che le istituzioni italiane e i loro rappresentanti impiegano quando comunicano con i cittadini del Paese europeo fanalino di coda nella conoscenza delle lingue straniere: ovvero, il proprio.

Non che sia una peculiarità della politica. In diversi comparti – dal marketing al turismo – fanno parte della quotidianità, per quanto assimilabili ad una terminologia internazionale. Allo stesso modo, per stare nel nostro cantuccio, non fanno eccezione le leghe sportive. Qui invece parliamo di jobs act, bipartisan, devolution, election day, exit poll, stepchild adoption, welfare e poi ancora meeting, deadline, coffee break, highlight, salary cap, e altri termini più o meno noti assolutamente traducibili. Come quelli in italiese, o meglio americanese, visto che da li si attinge copiosamente, con footing, working progress, turnover, overtime, playout e via discorrendo: parole dal significato storpiato o inventate del tutto che farebbero agghiacciare non solo la Regina Elisabetta ma anche i trumpiani del Midwest e frequentatori del pub giù in fondo alla via fuori Gateshead.

Al di là dell’ironia, in alcuni casi i termini hanno una dignità e valenza, sia chiaro, così come in ambito accademico. In molte circostanze però colpisce il contesto e l’uso inappropriato ed eccessivo – pure la pronuncia, ma qui non è il caso di strafare – quando sono perfettamente traducibili e sarebbero dunque comprensibili a tutti in lingua madre. Poi è vero anche che esistono funzionari d’azienda che si dilettano a parlare di awareness e follow up con i loro collaboratori e ad ogni incontro con clienti e fornitori, ma semmai col tempo è un bene sia così: in genere in quel caso si intuisce più rapidamente che l’attendibilità è inversamente proporzionale al numero di volte in cui sommergono l’interlocutore a colpi di business unit.

Che sia un po’ per provincialismo, un po’ perché a volte si copia-incolla a livello internazionale senza troppi riguardi (di certo non in Francia, per dire), la sensazione è che ci sia anche una sorta di volontà più o meno subliminale nell’usare l’inglese con gli italiani. Da un lato non si vuole essere intenzionalmente chiari; dall’altro si spera di passare per intelligentoni. Tale è il numero gli epigoni di Alberto Sordi in “Un americano a Roma” che nell’Italia del cashback sarebbe da prevedere un codice Ateco anche per la categoria dei venditori di aria fritta.

Cosa vorremmo dire in definitiva con questo post? Che è scorretto, anzi inaccettabile, che le istituzioni pubbliche impongano o comunichino attraverso termini che, corretti o meno non importa, non possono essere pienamente compresi da chi li ascolta. Se in un’azienda privata ognuno fa quel che vuole, non può permettersi di farlo la politica: l’unica lingua ufficiale della Repubblica Italiana è l’italiano.

Pubblicato da Paolo Sacchi

Nato a Genova, ha scoperto quasi subito che le Scienze Politiche non facevano per lui. Viaggiatore e calciofilo, già ufficio stampa, come giornalista collabora con diverse testate cartacee, web e radiofoniche e da anni racconta dal vivo in diretta alla radio le partite del ChievoVerona. Esperto di turismo e di sport britannici, è felice di dover rifare spesso il suo bagaglio a mano.