La lezione dell’undici settembre

L’undici settembre di diciannove (sigh) anni fa, sono in ufficio. Lavoro a Genova per un’azienda del settore del turismo. Scrivo i testi dei cataloghi per un tour operator che nel 2001 è specializzato nel lungo raggio e dunque anche e soprattutto sugli Stati Uniti.

Si tratta di una mansione molto gradevole: mi stimola e in fondo mi permette di iniziare a conoscere meglio il mondo.La storia da qui in avanti è comune a quella di tanti che l’hanno vissuta, per quanto di riflesso e seppur da lontano, nei settori come quello del turismo e dei media, ma val la pena ricordarla. Il tran tran quotidiano quella tarda mattinata è scosso da una notizia di un velivolo che si è schiantato su una delle Torri Gemelle. Che sia uno di quei piccoli elicotteri tanto apprezzati dai turisti che sorvolano Manhattan in escursione? Quel tipo di servizio, con dei clienti a bordo, era giusto previsto in quella fascia oraria.

Neppure il tempo di incrociare le informazioni, ne arrivarono ancor più velocemente altre, angoscianti. Sono le stesse che passano nelle edizioni speciali dei telegiornali e che tutti ricordiamo ancor oggi con lucidità quasi impressionante.In azienda, all’epoca un marchio annoverato tra i principali del comparto, si fa presto a fare il conto di quanti clienti-viaggiatori sono a New York. Molti altri stanno per raggiungerla. Siamo assaliti da una sensazione di sgomento, di incredulità, d’incertezza ma non c’è molto tempo per riflettere.

L’open space al terzo piano dello stabile in cui ha sede la società si trasforma nel reparto in cui viene gestita l’emergenza. La chiusura dello spazio aereo americano complica la situazione e l’allarme è anche operativo. Nel mentre colleghi, agenzie di viaggi e anche famigliari di clienti in viaggio iniziano a chiamare. Voci che esprimono preoccupazione, panico, che vorrebbero essere rassicurate, vorrebbero sapere dove sono i loro cari, cosa si farà per farli tornare. Così l’azienda decide di allestire una copertura di 24 ore su 24 per tutte le funzioni, sia quelle operative che legate alla comunicazione, in turni condivisi con lo staff: di giorno sono privilegiati – giustamente – i “genitori”, ovvero chi ha figli a casa. Di conseguenza finisco di buon grado a lavorare di notte. Saranno sette consecutive, prima di un ritorno alla normalità.

Sono molte le considerazioni che si possono fare o dibattere sul piano storico e filosofico di quel clamoroso evento che ha, volenti o nolenti, segnato un’epoca. Sul terrorismo, sulla paura, sulla realtà che supera la fantasia, su come si riparte dopo eventi catastrofici. Troppo complicato tirare delle somme. Se non su una chiave di lettura personale che ho ricevuto in eredità dall’undici settembre legata a quell’estemporaneo impegno notturno: per la prima volta nella vita mi è capitato di confrontarmi con l’angoscia e la tensione, se non il terrore, per le sorti di persone, amici e parenti. Oltretutto a migliaia di chilometri di distanza.

Nel silenzio e nel buio esterno di quelle ore, rispondendo ad alcune telefonate, seduto comodamente in ufficio, piano piano ho iniziato a riflettere sull’empatia e sull’importanza talvolta di condividere le emozioni con altri. Cercare un equilibrio nel contestualizzare e relativizzare quel che viviamo, per quanto lo si possa trovare scomodo, impegnativo, pesante o magari apparentemente angoscioso, penso permetta di metterci un po’ più spesso nei panni altrui e non sempre e solo nei nostri. Che ogni tanto sarebbe utile.

Pubblicato da Paolo Sacchi

Nato a Genova, ha scoperto quasi subito che le Scienze Politiche non facevano per lui. Viaggiatore e calciofilo, già ufficio stampa, come giornalista collabora con diverse testate cartacee, web e radiofoniche e da anni racconta dal vivo in diretta alla radio le partite del ChievoVerona. Esperto di turismo e di sport britannici, è felice di dover rifare spesso il suo bagaglio a mano.