Il cinema di Sachin

Il sole sta tramontando sulla Gateway of India. Davanti al mare, nel punto più meridionale della penisola che ospita il nucleo centrale di Mumbai – o Bombay, almeno per i lettori dell’Independent (clicca), per qualche attimo ci si può ritagliare un angolo di apparente tranquillità. Tranquillità e Mumbai è una sorta di ossimoro: da queste parti il traffico dà tregua solo a notte fonda, soffocato e soffocando quasi tredici milioni di abitanti. Un dato, quello riferito ai residenti, da indicare con un asterisco: ci vuole uno sforzo di fantasia per censire le migliaia di persone poverissime che arrivano anno dopo anno in città dai dintorni, che vivono per strada o comunque senza fissa dimora. Il portale – il “Gateway” – è un arco di basalto alto ventisei metri eretto per celebrare la visita nella città di re Giorgio V nel 1911. Eredità del periodo coloniale britannico, che ha lasciato al Paese anche una lingua franca – l’inglese, appunto -, un sistema ferroviario moderno, la passione per il tè e soprattutto quella per il cricket.

Col passare dei minuti, dall’altra parte della strada rispetto all’arco, il passaggio si fa frenetico. Con l’arrivo della polizia, viene transennata tutta l’area prospiciente il Taj Mahal Palace, simbolo se non icona dell’ospitalità indiana. Come il monumento, l’albergo risale al periodo del British Raj. Non è un hotel come gli altri e lo si capisce una volta entrati nella lobby. Costruito nel 1903, è stato ampliato nel 1973. Epicentro suo malgrado di un’azione terroristica che nel 2008 sconvolse la città, è rimasto chiuso per qualche anno e nel frattempo ristrutturato in un contesto in cui Le Corbusier sembra incontrare le geometrie del Rajastan. Un’operazione riuscita: le 565 camere e aree comuni richiamano internazionalità e tradizione, lusso e discrezione, modernità e storia. Senza neppure dover consultare le tabelle dei prezzi, non ci vuole un indovino per intuire che sia un albergo non per tutti i portafogli. Un concetto che potrebbe stridere in un contesto in cui la forbice tra ricchezza e povertà è all’ennesima potenza. Però così va il mondo e non lo scopriamo certo qui.

Nel frattempo, davanti all’hotel, oltre le transenne, si sono accalcate alcune centinaia di persone. Nessuno di loro ha l’aria di essere un cliente della struttura. Sono lì con un unico scopo: poter vedere da vicino Sachin Tendulkar, il più celebre giocatore di cricket della storia dell’India, uno dei campioni più amati a livello mondiale. Esportato dagli inglesi durante il periodo coloniale, il cricket è senza rivali lo sport nazionale, con un giro d’affari importante e una ricca lega professionistica in grado di attirare campioni stranieri. Sachin è una sorta di leggenda vivente. Rappresenta la quintessenza dell’idolo e detiene una fama paragonabile a quella di Messi o Ronaldo nel calcio. L’apice del seguito lo raggiunge quando gioca con la nazionale indiana. La metafora dell’intero “Paese che sembra fermarsi” da queste parti non rende: qui il traffico che stritola ogni grande città del subcontinente indiano resta costante. Tuttavia, passeggiando per le strade, ovunque si notano tv più o meno di fortuna accese sui canali che trasmettono le partite. Il capannello di persone che si fermano ad osservarle si moltiplica quando in battuta c’è lui, il grande Tendulkar, figlio prediletto di Mumbai. Che peraltro in tv e sui giornali compare con cadenza impensabile, ben oltre alle sue performance in campo. Perennemente al centro dell’attenzione dei media, in più è protagonista di campagne pubblicitarie di ogni tipo, nei panni di attore e soprattutto testimonial. Bevande, penne, cerotti, olio per il motore, telefonia mobile, automobili di modelli e cilindrate di ogni tipo, assicurazioni, materiali per l’edilizia, televisori e, sì, ovvio, pure indumenti da gioco. Di tutto e di più, consigliato, promosso, gustato da Sachin.

Pure le più acclamate star di Bollywood – l’industria del cinema che ha sede proprio a Mumbai, altro mito indiano – ambiscono a farsi fotografare con lui. Di certo Sachin non è una persona “famosa per essere famosa”: tutto questo arriva grazie alla straordinaria qualità espressa sul terreno di gioco. Migliaia di punti totalizzati – che si chiamano ‘runs’, corse – lo hanno reso un mito oltre i confini nazionali, tanto da essere apprezzato e rispettato indistintamente in patria e all’estero. Durante una serie di sfide contro l’Australia, uno dei giocatori avversari disse di “aver visto Dio in battuta.” In effetti la venerazione per Tendulkar a tratti ha rasentato l’idolatria: tifosi che si sono suicidati in occasioni di sue performance, altri che ne hanno morbosamente seguito la carriera passo per passo, senza perdersi una partita dal vivo. In un Paese in cui la fede e la religione sono intoccabili, il suo merito è anche quello di aver saputo gestire situazioni in cui la blasfemia sembrava alle porte: “Non sono Dio. Faccio degli errori, Dio non ne fa” ha ripetuto più volte, giusto per ridimensionare la questione e riportarla su binari più terreni. Per uno che per uscire di casa di giorno fatica a passare inosservato tanto da doversi mascherare, vittima di un’attenzione e un affetto patologico dei fan tanto da aver quasi rinunciato ad avere una vita pubblica, tutto sommato non è poco.

Nel frattempo, finalmente, fuori dal Taj Mahal Palace accade qualcosa. Davanti all’ingresso si ferma una colonna di minivan da cui scendono una serie di ragazzi alti, biondi. Inequivocabilmente sono i giocatori  dell’Australia, protagonisti del test match contro l’India al Wankhade Stadium, situato a non più di un miglio a nord. I test match nel cricket sono un tipo di partite sviluppate su più giorni  – al contrario di altre che hanno durata più breve e si disputano in un giorno: vi evitiamo i dettagli – e rappresentano la quintessenza di questo sport. C’è entusiasmo nell’aria perché l’india ha vinto per sole 13 runs dopo un bellissimo e tiratissimo giorno di chiusura. Come avviene in tutti gli sport britannici – il rugby ad esempio – a conclusione di un test match la formazione di casa organizza un rinfresco ufficiale a cui partecipano squadre e dirigenti. A Mumbai non poteva che svolgersi all’interno dell’hotel più prestigioso, in cui, ecco, sì, arriva anche l’India. Siccome siamo a cena in una sala adiacente, ci è consentito di andare a vedere cosa succede nella grande lobby, dove l’accesso è precluso a tutti quelli che non hanno volti occidentali. Il primo a entrare è Harbhajan Singh, identificabile dal copricapo sikh che lo distingue da tutti gli altri. È il capitano della squadra di Mumbai e la folla all’esterno lo chiama ma lui passa oltre. È stato decisivo nell’eliminazione di cinque battitori avversari e la mimica facciale che esprime rende bene l’idea di come si senta, anche se sembra più interessato a farsi fotografare con gli ospiti della struttura piuttosto che firmare autografi agli ammiratori abituali. Il palcoscenico per qualche minuto è soprattutto suo, finché non entra lui, Sachin. Anche contro l’Australia è il migliore marcatore della propria squadra, per quanto superfluo sottolinearlo. A vederlo da vicino, di primo acchito, ci sorprende la statura. È robusto, ma non propriamente alto. Centosessantasei centimetri d’altezza, come verificheremo dopo. Inversamente proporzionale al carisma che emana, verrebbe da aggiungere. In parole povere, si capisce che il carattere sia una qualità che non gli manchi. Intorno tutti si fanno largo per lasciargli il passaggio, un po’ come Mosè con le acque del Mar Rosso. Tranne noi che, coraggiosamente, ci avviciniamo e gli porgiamo la mano, ricambiati. Non sarà sicuramente un Dio, ma come tutti i miti dello sport Sachin ha qualcosa di speciale. E lo avrà per sempre, anche ora che ha deciso di smettere.

Paolo Sacchi

(Bombay/Mumbai, India)

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Pubblicato da Paolo Sacchi

Nato a Genova, ha scoperto quasi subito che le Scienze Politiche non facevano per lui. Viaggiatore e calciofilo, già ufficio stampa, come giornalista collabora con diverse testate cartacee, web e radiofoniche e da anni racconta dal vivo in diretta alla radio le partite del ChievoVerona. Esperto di turismo e di sport britannici, è felice di dover rifare spesso il suo bagaglio a mano.