Totti urbi et orbi

Il Coni gli ha concesso la sala. Rai Due gli ha dedicato la diretta. In quale paese al mondo due enti pubblici, sovvenzionati dalle tasse dei contribuenti, permetterebbero a un manager di un’azienda privata e quotata in borsa la facoltà di intervenire a mercati aperti per parlare del proprio business e fare annunci importanti contro la ditta da cui dipende? In un contesto per certi versi surreale, quanto sopra è accaduto in Italia, a Roma, dove a Francesco Totti, da due anni nei quadri direttivi del club di cui è stato il giocatore più celebrato, pare sia permesso tutto o quasi. Incluso poter annunciare le proprie dimissioni urbi et orbi in diretta nazionale dalla sede del Comitato Olimpico.

C’è chi può, verrebbe da aggiungere. In campo era un piacere vederlo in azione. Pure da ex calciatore il Pupone a suo modo resta al centro della scena. Dotato, come quel personaggio de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, delle chiavi per accedere a tutti i palazzi del potere di Roma. Tranne, da ieri, in quello del club in cui ha militato per trentanni.

Il grande escluso

La proprietà dell’As Roma è evidente sia sganciata da legami all’interno del Grande Raccordo Anulare. Se da un lato una dirigenza non autoctona spoetizza il mondo del pallone, dall’altro la presenza di “stranieri” cancella molte rendite di posizione. Vale per tutti, dallo steward allo stadio fino a quelle di tecnici, giocatori e dirigenti che, inevitabilmente, se le sono costruite in anni. Come in qualsiasi ambiente di lavoro.

James Pallotta and friends non si sono mai innamorati del capitano. La sensazione è che ne volessero fare a meno fin da subito. Prima l’hanno accompagnato ad appendere le scarpe al chiodo, con la carriera agonistica ormai tirata al massimo. Poi, piazzato in un ruolo da dirigente, l’hanno scarsamente coinvolto – anzi escluso, come ha dichiarato – dalle vicende societarie. Per uno che ha avuto grande influenza su tutto quel avveniva a Trigoria e dintorni, non poter decidere è stata una sventura peggiore di essere messo in panchina. «Meglio morire» , ha detto, spostando l’asticella della contesa all’ennesima potenza.

Non nuovo alle convocazioni di giornalisti (memorabile un precedente, sempre con la Rai, in cui aveva attaccato Luciano Spalletti, allenatore di turno), la conferenza indetta alla sede del Coni in diretta Rai ha evidenziato il ruolo che si è scelto nella vicenda: quello di vittima che rivendica un diritto negato (poter decidere se non comandare) corredato dell’invio di messaggi non troppo subliminali a chi l’ha messo da parte.

Totti ha dichiarato guerra, in fondo, a chi lo ha pagato fino ad oggi. E ha lasciato intendere di voler mobilitare la piazza contro i propri datori di lavoro, che ha identificato come “nemici della Roma”. Colpevoli di non avergli dato il potere che reclamava. Un potere che, non troppo tra le righe, cercherà di riprendersi. Magari – siamo al terzo livello di lettura, dunque alle pure ipotesi – attraverso qualche cordata. Oppure magari, fantasticando ma non troppo, con un ruolo federale, visto il pulpito da cui ha parlato.

Totti vittima?

Di certo è complicato giudicare dall’esterno l’operato di Totti nei panni di dirigente. Quel che si sa, a livello generale, è che per ricoprire certi ruoli professionali occorre studiare o comunque approcciarsi con umiltà. Ascoltandolo parlare dalla sala del Coni qualche dubbio è sembrato lecito farsene. A suo credito, ad esempio, afferma di aver contattato Antonio Conte, riducendo in fondo il suo ruolo alle buone relazioni personali. E col risultato di mettere altra benzina sul fuoco: come a dire che con lui la Roma oggi sarebbe nelle mani dell’ex Ct della nazionale.

Novanta minuti circa di dichiarazioni in parte comprensibili su certi piani umani, in altre apparese molto al limite di uno standing professionale. In ogni caso, siccome nel Belpaese al cuor non si comanda, l’assioma maturato dalle prime ribattute è stato un richiamo al “Va Pensiero” verdiano: tutti per Totti, vittima dell’occupante straniero. Sia chiaro: è un affetto che arriva da lontano. Quel che ha mostrato da calciatore è stato emozionante a prescindere. Però qui non sono in discussione veroniche, dribbling e cucchiai dal dischetto, record e gol memorabili. Ma le capacità manageriali, la cui valutazione spetta a chi paga.

Fama, tecnica e relazioni extra-calcistiche lo hanno agevolato e continuano a rappresentare un potenziale facilitatore in un ambiente come quello giallorosso, per quanto ciò non sia certamente una colpa ma piuttosto un merito. Lo si è spesso proposto come una sorta di personaggio alla David Beckham. Al contrario dello Spice-boy, a France’ i media in genere lo hanno sempre trattato coi guanti di velluto.

Il gossip delle presunte e semmai personalissime corna a Illary Blasi con Flavia Vento, per dire, con un filone da puro pettegolezzo, se non situazioni più delicate come quelle contestualizzate nel filone “Mafia Capitale” in cui venne tirato in ballo dal’ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni in vicende come quella dei vigili urbani ingaggiati a far da scorta ai figli, fino al business della sua società gestita dal fratello che affittava appartamenti al comune di Roma (giunta Vetroni) nell’ambito delle politiche di immigrazione. Una serie di vicende per nulla pertinenti col mondo della pedata che hanno raccolto attenzioni tiepide rispetto a situazioni parallele (quelle di Mario Balotelli, per dire) con cui certe testate si sono sbizzarrite assai. Tra fango e affermazioni non pertinenti alla sua professione, i giornali hanno preferito occuparsi delle prestazioni in campo e dei libri di barzellette su di lui, il più amato giocatore della Roma di ogni tempo.

Una partita a scacchi

Chissà se tutto ciò gli ha amplificato la sensazione di meritare il bastone del comando anche della gestione di una squadra di calcio di cui è una bandiera ma, fondamentalmente, un dirigente alle prime armi, per quanto ben remunerato. Una chiave del problema potrebbe essere nascosta nelle differenze tra questa e le proprietà precedenti della Roma in cui ha militato. Nel bene e nel male, Pallotta non ha legami con il territorio né ha uno storico di relazioni. Dunque con Totti non ha debiti né soprattutto crediti, neppure sportivi. L’esatto contrario dei presidenti che da Dino Viola in poi si sono susseguiti. Pallotta pensa che l’azienda, ovvero la Roma, sia più grande di Totti. Il capitano pensa, in fondo («le bandiere restano») l’esatto opposto.

Al netto della definitiva canonizzazione da parte degli adoratori, l’ex numero dieci si è mostrato in pubblico alla stregua di un collaboratore difficile da gestire a prescindere dalle qualità e con poca disponibilità a integrarsi in una mentalità aziendale. In realtà, al netto di tutto, questa di Totti ha il sapore di essere una mossa di una partita a scacchi che non è iniziata ieri e non finirà domani. Nel frattempo avrà modo di pensarci.

Pubblicato da Paolo Sacchi

Nato a Genova, ha scoperto quasi subito che le Scienze Politiche non facevano per lui. Viaggiatore e calciofilo, già ufficio stampa, come giornalista collabora con diverse testate cartacee, web e radiofoniche e da anni racconta dal vivo in diretta alla radio le partite del ChievoVerona. Esperto di turismo e di sport britannici, è felice di dover rifare spesso il suo bagaglio a mano.