«Il Chievo? È come un figlio»

Giuseppe Campedelli racconta a Mondo Chievo la sua storia e il suo legame con i colori gialloblù

Alcuni lo definiscono ‘stile-Chievo’. Quel modo di vivere il calcio di società e tifosi in cui passione fa rima con educazione e la voglia di vincere va a braccetto con la sportività. Virtù per nulla estranee a Giuseppe Campedelli, uomo la cui vita è legata a doppio filo a quella del sodalizio gialloblù.

Classe 1937 e fratello di Luigi – il padre del presidente Luca -, oltre ad aver ricoperto diversi ruoli di responsabilità nel club ha contribuito a trasmettere quei valori che sono da sempre accostati al Chievo. Un legame con la squadra della Diga iniziato dall’immediato dopoguerra. Che tempi… “Nel 1948, anno in cui si è ripreso a giocare, avevo undici anni. Non c’era però un campo da gioco e fu deciso di costruirne uno al Forte. Ai lavori contribuirono con entusiasmo tutti gli abitanti di Chievo. Dai bambini come me fino agli anziani: ogni aiuto era ben accetto. All’epoca, non avendo trattori, chi aveva una carriola, un carretto, un cavallo da traino, un badile, lo mise a disposizione. Si può davvero dire che la squadra da allora fino ad oggi ha sempre potuto contare sul contributo appassionato e generoso di tante persone”.

Un coinvolgimento, il suo, che sarebbe stato sempre più profondo nel corso degli anni. E naturalmente ricco di aneddoti. “Da calciatore ho militato nelle squadre giovanili fino al campionato riserve. Era davvero un altro mondo rispetto a oggi. Ricordo una partita giocata al Bottagisio, campo in cui ci siamo trasferiti nel 1957. Il 26 dicembre di quell’anno ospitavamo il Bovolone. L’impianto era stato ultimato da poco e non era ancora dotato di docce funzionanti. Il terreno quel giorno era un enorme pantano. Al fischio finale, col fango fin sopra i capelli, per evitare di sporcare gli spogliatoi e ripulirci un po’, visto il bel sole siamo andati a lavarci direttamente nell’Adige! A dire il vero l’acqua era piuttosto fredda… tanto che poi ho fatto una settimana a letto…”.

Nel 1967 Giuseppe Campedelli entra a far parte della società come consigliere e nel 1976 eredita la carica di presidente da Montresor. Per spiegarne il coinvolgimento personale è sufficiente una semplice similitudine. “Per me il Chievo è come un figlio. Da agosto a maggio ogni domenica in cui la squadra gioca vivo una tensione costante, come un nodo alla gola. Se non sono allo stadio, non riesco ad ascoltare la radio o i commenti in tv. Piuttosto vado a fare una passeggiata”.

Dunque si può dire che nel suo caso ‘passione’ fa rima con ‘apprensione’? Guardi, nel 1980, l’ultimo anno che ho fatto il presidente, ci salvammo all’ultima giornata pareggiando a Jesi. Ho negli occhi ancora, nitidissima, una miracolosa parata di Castellini a pochi minuti dalla fine con l’avversario solo davanti a lui… Se quel giorno mi avessero misurato la pressione, di certo l’avrei avuta a 400 o 500… Una sensazione simile a quella provata la scorsa stagione. Però, l’anno passato come allora, ero comunque convinto che ce l’avremmo fatta. L’avevo detto anche a Luca ancora a gennaio.”

Tra le tante giornate speciali, ce n’è una davvero indimenticabile nel cuore di Giuseppe Campedelli. “Il giorno della promozione in B. Quella è stata un’impresa per certi versi ancora più grande della conquista della Serie A. Alla mattina sono andato in stazione a salutare amici e tifosi in partenza per Carrara, poi al cimitero da mio fratello. Non potevo non passare da lui, ne ero troppo attaccato. A lui ho dedicato quella giornata perché oltre ai tantissimi meriti ha avuto anche quello di aver programmato e gettato le basi per il grande obiettivo della promozione in serie B. Nel pomeriggio, per distrarmi, sono andato a San Massimo con Enrico Maiorana a vedermi una partita. Cercavo stare lontano dalle notizie ma nel corso del secondo tempo ho ascoltato in diretta alla radio l’annuncio di Puliero del gol del pari. Che sollievo, al gol della vittoria m’è scappata anche qualche lacrimuccia.

Ritorniamo al quadriennio da presidente, dal 1976 al 1980. Due allenatori: Nicola Ciccolo e Carlo De Angelis. Personaggio di grande spessore.“Ciccolo, sia da giocatore che allenatore, ci ha portato la sua mentalità vincente. Ha trasferito a tutti la sua grande audacia. Con lui è avvenuto il passaggio dal dilettantismo alla Serie D, che significava semiprofessionismo. Che dire di De Angelis? E’ una persona che stimo enormemente. Un professionista eccellente, grande educatore e ottimo insegnante. Curava i giovani con attenzione e premura straordinaria. Una persona estremamente corretta tanto che quando una volta, con estremo malincuore, fui ‘costretto’ a esonerarlo da allenatore della prima squadra, mi disse: ‘presidente non si preoccupi, se lei vorrà richiamarmi, avrò sempre la borsa pronta’. Fui enormemente felice di ridargli la panchina dopo solo sei partite e dimostrare che solo con lui ci saremmo potuti salvare”.

Con De Angelis Campedelli ha di fatto avviato la fondazione del settore giovanile gialloblù, oggi tra i fiori all’occhiello del calcio italiano. Con un’attenzione a 360 gradi al percorso dei ragazzi. ”L’attività del settore giovanile è importantissima sia nella crescita dell’atleta che in quella dell’uomo. Perciò’ è fondamentale lavorare in perfetta sintonia con le famiglie. Il calcio talvolta crea grandi illusioni, dunque non possiamo tralasciare nessun aspetto formativo. Nel 1988 abbiamo fissato regole comportamentali come il controllo delle pagelle scolastiche, avere i capelli corti in ordine, niente orecchini. Abbiamo usato anche il metodo del raddoppio delle sanzioni del giudice sportivo per gli espulsi per proteste o atteggiamenti violenti. Ricordo un ragazzo che, anziché le tre previste, ha fatto sei giornate di squalifica. Veniva da Castagnaro: non ha mai perso un allenamento. Eravamo la squadra più disciplinata del torneo”.

Dei tanti ragazzi lanciati dal settore giovanile, Campedelli snocciola ancora oggi perfettamente dati e carriere. Dei suoi vecchi ‘pupilli’ chi ricorda con particolare piacere? “Sono tanti… d’acchito direi Pozza, classe ’61, che ha giocato in A con l’Avellino e Pisa, così come Zerpelloni, del ’62. Cassa, del ‘63, ha giocato nell’Atalanta. E Spollon, ’61, poi passato al Monza, giocava con noi in prima squadra il sabato e negli allievi la domenica! Devo dire che alla fine del mio mandato ho lasciato in cassa un cospicuo attivo grazie alle loro cessioni. Della generazione successiva cito Zamboni, che ha iniziato a giocare con noi quando aveva  aveva 11 anni. Dopo aver debuttato con noi in B fu una soddisfazione cederlo alla Juventus. Meritava di più invece Baietta, anche lui richiesto dalla Juve. Lo aveva seguito addirittura Bizzotto. Eravamo già d’accordo con Secco il padre dell’attuale DS dei bianconeri, Ndr – ma purtroppo un problema alla cartilagine fece saltare tutto. In quel periodo era un piacere trattare con l’allora Presidente dell’Avellino Antonino Sibilia. Posso dire che è stato una delle persone più corrette che io abbia incontrato in tanti anni di calcio. Manteneva sempre fede alla parola che dava. Un uomo tutto d’un pezzo. Non ha mai disatteso un accordo definito con una stretta di mano”.

Per Campedelli, tuttora nel C.d.A. della società, nello sport come nella vita, l’educazione e il senso civico vengono prima di tutto. Proprio a proposito di un tema caldo in questi giorni, anni prima di Abete, in fatto di bestemmie in campo era addirittura lui a invitare i giudici di gara ad applicare sempre il regolamento almeno per i propri atleti. “Prima delle partite dei campionati Beretti o Primavera dicevo agli arbitri che nel caso avessero sentito bestemmiare uno dei nostri giocatori avrebbero dovuto espellerlo. Nel caso non avesse provveduto, i nostri allenatori e accompagnatori avevano la disposizione di sostituirlo, anche a costo di giocare con un uomo in meno. Provvedimento che tuttavia non abbiamo avuto mai occasione di adottare. Giusto una volta ad un paio di ragazzi facemmo saltare la gara successiva”.

Come in ogni favola che si rispetti, Campedelli sa apprezzare i lieto fine. “Certamente. Quando c’è stato da fare festa non mi sono mai tirato indietro. Dopo la promozione in A a casa mia abbiamo fatto sei serate di festeggiamenti con tanto di banda musicale. Centinaia di invitati, ex giocatori, tutti i ragazzi del settore giovanile, amici, appassionati. Se lo ricordano ancora adesso”.

di Paolo Sacchi (Mondo Chievo 13)

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Pubblicato da Paolo Sacchi

Nato a Genova, ha scoperto quasi subito che le Scienze Politiche non facevano per lui. Viaggiatore e calciofilo, già ufficio stampa, come giornalista collabora con diverse testate cartacee, web e radiofoniche e da anni racconta dal vivo in diretta alla radio le partite del ChievoVerona. Esperto di turismo e di sport britannici, è felice di dover rifare spesso il suo bagaglio a mano.